IL CANTARE DI SER THOPAS SIGNORI

IL CANTARE DI SER THOPAS SIGNORI,

state bene attenti, che io vi racconterò davvero una storia allegra e divertente. Si tratta di un bel cavaliere chiamato Ser Thopas, illustre eroe di battaglie e tornei. Egli era nato in una lontana terra delle Fiandre, di là dal mare, in un borgo che ha nome Poppering. Suo padre, uomo di liberalissimo animo, era per grazia di Dio signore di quel luogo. Ser Thopas era un giovinetto ardito, dalla faccia bianca come il pane di Maine [3] e le labbra color di rosa. Avea carnagione vermiglia, e un naso che gli stava proprio a pennello. La barba e i capelli, che gli scendevano giù fino alla cintola, erano colore zafferano. Portava stivali di Cordova, calzoni scuri di Bruges, ed una veste di stoffa orientale che costava parecchie genovine [4] . Sapeva con ugual destrezza dar la caccia al cervo nella selva, e agli uccelli acquatici, cavalcando lungo il fiume col falco grigio appollaiato sopra una mano. Era inoltre un eccellente arciere, e senza rivali quando si trattava di disputarsi un montone alla lotta. Più d’una bella, nella propria cameretta, spasimava d’amore per lui invece di dormire. Ma Ser Thopas non era un damerino: era un’anima casta e gentile come il fior di spino dalle bacche rosse. Un giorno egli ebbe desio di uscire fuori a cavallo, e inforcato il suo destriero grigio, uscì con una lunga lancia in mano ed uno sciabolone al fianco. Si avviò, quindi, verso una bella foresta ricca di daini, lepri, ed altra selvaggina; e mentre girava, attraversandola tutta da un capo all’altro, fu preso da un senso di profonda tristezza. Pel bosco germogliavano, dovunque, erbe e piante d’ogni specie: la liquirizia, la valeriana, il garofano, la noce moscada che si mette nella birra quando è nuova o un po’stantia, e si conserva anche nel cassettone [5] . Dovunque era un allegro cinguettare di uccelli: qua lo sparviero e il pappagallo, là cantava la sua canzone il tordo; ed il colombo mandava di sulla frasca un canto limpido e sonoro. I primi accenti del tordo destarono nell’animo di Ser Thopas un forte desio d’amore, il quale si fece, ad un tratto, così prepotente, che il cavaliere si dié come un pazzo a menar di sprone. E il suo bel cavallo nella corsa sfrenata grondava di sudore [6] e filava sangue dai fianchi. La foga del prode Ser Thopas era tanta, che anch’egli fu presto stanco del suo veloce cavalcare sulla molle erbetta del bosco; e si mise a riposare, lì in quel luogo stesso, lasciando che il cavallo, al quale dette del buon foraggio, riprendesse un po’ di fiato. «Maria santa, benedicite, ma che è mai questo amore che mi opprime l’animo e mi fa soffrire così? Io ho sognato tutta la notte che una regina delle fate sarà la mia bella e dormirà, un giorno, nel mio letto. Oh sì! Io voglio amare, davvero, una regina delle fate, poiché in tutto il mondo non c’è una dama degna di essere la compagna della mia vita. Io dimenticherò tutte le altre donne, e andrò per monti e per valli a trovare una regina delle fate.» E sì dicendo, fu di nuovo in arcione, e saltando steccati e pietre si dié a cavalcare in cerca della sua bella; e tant’oltre andò col cavallo, finché in un remoto borgo trovò il paese delle fate. Allora si mise a cercare e ad esplorare ogni luogo, da nord a sud, attraverso a selve e a boschi foltissimi, senza mai incontrare anima viva; perché uomini, donne, bambini, nessuno del paese osava, nè a piedi nè a cavallo, andare incontro a lui. Finalmente un giorno si vide comparire davanti un gigante smisurato, che avea nome Ser Elefante, ed era un uomo terribile. Il quale vedutolo gli disse: «Ragazzo, per il Dio Termagante [7] , se non te ne vai subito via da questi luoghi, dove io capito spesso, ti ammazzo il cavallo con una randellata. Sappi che qui fra i suoni delle arpe e della zampogna, in mezzo ad una vera sinfonia di strumenti, abita la regina delle fate.» Il cavaliere rispose: «Il cielo mi assista, e domani io tornerò qui armato per misurarmi con te: e par ma foy la mia lancia non te la farà passare tanto liscia. Poiché non sarà trascorso il primo quarto del giorno, che io ti avrò passato lo stomaco da parte a parte, e tu cadrai morto in questo luogo stesso». Ciò detto, ser Thopas fuggì via, mentre il gigante con una terribile fionda gli scagliava dietro delle pietre per ucciderlo: ma egli con l’aiuto di Dio e con la sua destrezza si salvò. Ed ora, signori, fate bene attenzione alla mia storia, che è più gaia del canto dell’usignuolo. Poiché ora sentirete come Ser Thopas, chino sul suo cavallo e stringendosi nelle spalle per evitare i sassi del gigante, tornò, attraverso valli e colline, nel suo regno. Appena giunto, chiamò, in mezzo alla gioia universale, la sua gente, e ordinò che si preparassero subito grandi feste con giuochi e musica, per celebrare un avvenimento straordinario.—Egli doveva misurarsi con un gigante a tre teste, e battersi con lui per fare cortesia ad una splendida stella, alla quale dedicava l’amor suo.— «Presto (indi soggiunse), quanti menestrelli e cantori di geste [8] sono qui, mi raccontino, mentre indosso le mie armi, fatti e avventure di re, di papi, di cardinali, e qualche storia d’amore.» Gli portarono per prima cosa il dolce vino, poi gli porsero in una coppa un aromatico miscuglio di panforte finissimo, liquirizia, e semi di comino con zucchero raffinato [9] . Quindi il prode cavaliere si vestì coprendo le sue bianche carni con una camicia e un paio di calzoni di stoffa finissima. Poi indossò una casacca, e si cinse, a difesa del cuore, di una maglia di acciaio. Sopra la maglia mise una solida corazza, prezioso lavoro di un giudeo, e finalmente indossò la sua cotta d’armi, candida come un giglio, con la quale egli dovea andare in battaglia contro Ser Elefante. Il suo scudo era sfolgorante d’oro, con una testa di cinghiale nel mezzo, accanto alla quale brillava un carbonchio. Mentre si vestiva giurò, solennemente, sopra la birra e il pane, che il gigante sarebbe morto sotto i suoi colpi, a qualunque costo. Aveva un paio di stivali di pelle conciata nell’acqua bollente, ed una sciabola con la guaina d’avorio; l’elmo era di ottone lucido. La sella era bellissima [10] , e la briglia avea fulgori di sole e di luna. La sua lancia, nemica della pace e apportatrice di guerra, era di cipresso fino con la punta ben affilata. Il cavallo, dal mantello pomellato, aveva un’andatura semplice e tranquilla. E qui, signori miei, è finita la prima parte del mio cantare [11] . Se ne avete voglia ancora, cercherò di contentarvi. Dunque, pour charité, signore e signori gentilissimi, non aprite bocca, e state attenti, che ora si parla di armi, di cavalieri, di donne, di cortesie e di amori. Che cosa sono i famosi cantari del giovine Horn, di Ipotis, di Bevis, di Ser Guy, di Ser Libeux, e di Pleindamour [12] , in confronto a quello di Ser Thopas, che era il vero fiore della cavalleria? Egli, dunque, inforcato il suo bravo destriero, guizzò d’un salto sulla via, come una favilla guizza in aria da un tizzo ardente. Sull’elmo che gli copriva la testa spiccava per cimiero una torre con un fiore di giglio in cima. Ed ora Dio salvi dalla morte il corpo di Ser Thopas. Da pro’ cavaliere errante, la notte non volle mai dormire al coperto: suo letto era la terra, suo tetto il cappuccio, e per guanciale avea l’elmo risplendente. Vicino a lui intanto il suo destriero morsicchiava le dolci erbette del prato. Anche egli, come si legge del prode Ser Percival [13] quando indossava lo splendido costume di cavaliere, non bevve mai altra bevanda che l’acqua della fonte. Finalmente un giorno……. «Basta, basta, per l’amor di Dio, interruppe il nostro oste: non ne posso più delle tue chiacchiere! Dio mi salvi, quanto è vero che mi fanno perfino male gli orecchi! Al diavolo il tuo cantare: è proprio roba da chiodi!» «Perché, risposi io? Perché non vuoi che anche io finisca, come gli altri, il mio racconto? Questo è il più bel cantare che io mi sappia.» «Per Dio, riprese l’oste, te lo dico subito il perché: perché il tuo famoso cantare non vale un soldo, e tu sprechi il tempo inutilmente a farcelo sentire. Insomma, signore mio, ti proibisco di seguitare in questo modo. Vediamo un po’ se sei buono a raccontarci una bella avventura, o se sai dirci, in prosa, una novella che almeno ci diverta o ci insegni qualche cosa.» «Per la passione di Cristo, risposi, ben volentieri. Vi racconterò una cosetta in prosa che, se non vorrete essere proprio incontentabili vi piacerà di certo. È una storia morale e piena di virtuosi ammaestramenti, che già altri hanno raccontata in diversi modi. E ciò non vi deve fare meraviglia, perché voi sapete bene, per esempio, che ognuno degli Evangelisti racconta la passione di Gesù in un modo differente: eppure nonostante tutte le differenze, è sempre vera ugualmente, e la storia è sempre quella. Raccontata da S. Marco o da S. Matteo, da S. Luca o da S. Giovanni, la pietosa passione è sempre, più o meno, la stessa cosa. Però, signori miei, se la mia storia vi sembrerà diversa da quella che avete sentito altre volte, specialmente per i proverbi con cui io cerco di rendere più interessante questo trattatello di morale, non vogliate vi prego gridarmi la croce addosso. Vedrete che il mio racconto segue, in sostanza, il piccolo trattato onde l’ho tolto [14] . State dunque a sentire, e questa volta, mi raccomando, lasciatemi andare fino in fondo.

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