Risposte verifica La monaca di Monza di Alessandro Manzoni + Analisi del testo (Italiano)
Alessandro
Manzoni, La monaca di Monza
Renzo, Agnese e Lucia giungono a Monza e qui i due promessi sposi si separano. Renzo parte per Milano, mentre il padre guardiano dei cappuccini conduce le due donne al convento di Gertrude, la “Signora”. Dopo la descrizione della donna e del colloquio tra questa, Agnese e Lucia, Manzoni narra la storia di Gertrude: l’infanzia al convento, il rifiuto di prendere il velo, l’ostilità della famiglia, la forzata decisione di farsi monaca.
(dai cap. IX e X dei Promessi sposi)
Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni,
faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta,
sfiorita e, direi quasi, scomposta.
Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e piu forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.
[…]
Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo
milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta
opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena
sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era
di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da
lui.
Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice
espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i
cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al
primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli,
per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era
ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già
irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco
o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la
sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un
nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato
portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da
monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan
monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di
tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo:
” bello eh? ” Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo
de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della
fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non
con le parole: ” che madre badessa! ” Nessuno però le disse mai direttamente:
tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni
discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina
trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole
la portava molto facilmente, ” tu sei una ragazzina, ” le si diceva: ” queste
maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a
bacchetta, farai alto e basso “. Qualche altra volta il principe, riprendendola
di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva
con uguale facilità, ” ehi! ehi! ” le diceva; ” non è questo il fare d’una par
tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara
fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la
prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello
della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan
dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme. Il
contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone austero; ma quando
si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua
parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando,
che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale.
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor
più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo
veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle
due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e,
accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che
l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire
che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una
grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe
trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più
allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né s’ingannava:
la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire,
il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione
tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la
proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero
forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate
trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan
così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata
per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua
condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e
condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli,
quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un
contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a
tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni
intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate
avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni
particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non
distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra
esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche,
rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era
pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col
farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare
che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata
così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero.
Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser
destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità,
parlava magnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del
monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e
vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano
punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare
il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti,
di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di
villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel
cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran
paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e
l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per
farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee
tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e
più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per
condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin
de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che
anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di
tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo
voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea
che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo
della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua
importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più
tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne
compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di
negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per
dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza
che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano
ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da
principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta
l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta
l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere
un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi
intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che
le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità;
talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi
desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar
benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e
con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così
critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che
solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche
volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva
fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo
splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da
prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e
a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della
mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi
accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della
puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva
imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e
si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere.
Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle
feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla
nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo
santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena.
Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come
l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e
grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori
confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua
ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori,
nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo
d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro. […]
Gertrude nella sua permanenza a casa matura l’idea di
rifiutare l’ingresso definitivo in convento. I parenti allora la isolano, la
ignorano, la trattano come un’estranea, facendola sentire in colpa. Solo un
servitore del principe si mostra umano con lei e tra i due avviene uno scambio
di lettere. Una di queste viene intercettata da una serva che la mostra al
principe, che procede immediatamente a cacciare il ragazzo e a punire con
durezza la ragazza facendola rinchiudere in una stanza. Poi comprende di avere
un’arma decisiva in mano…
Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’
giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni
cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena
sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le
sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che
si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che
l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una
volontà che non si guarda.
Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo
spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che
venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo.
Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in
ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: ” perdono! ” Egli le fece
cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il
perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e
troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in
somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa
dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il
titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del
fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come
lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che,
quand’anche… caso mai… che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla
nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a
un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a
un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera
ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado
la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e
misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è piú chiaramente
indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che
la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei…
” Ah sì! ” esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata
dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.
” Ah! lo capite anche voi, ” riprese incontanente il
principe. ” Ebbene, non si parli piú del passato: tutto è cancellato. Avete
preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché
1’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo
riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio
e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura “.
Analisi del testo
Giunte a Monza, Lucia e Agnese raggiungono il convento dei
cappuccini, dove mostrano la lettera di presentazione al padre guardiano che
presenta le due donne alla “Signora”. Si tratta di una monaca di nobili origini
e molto potente che si occuperà della loro sicurezza. Le attende dietro la
grata: ritta e altera, ha il portamento di chi è abituato a comandare. La sua
bellezza non è propriamente innocente, ma nel suo sguardo mobile e a tratti
angosciato si rivela un’anima sensibile e forse tormentata.
Alle domande della “signora” sul cavaliere che la
perseguita, Lucia risponde timidamente, e quando Agnese interviene Gertrude la
rimprovera aspramente.
Manzoni si sofferma sulla storia della monaca, destinata dal
padre, tiranno e subdolo, a diventare monaca contro voglia. Fin da bambina,
Gertrude è destinata al convento: le sue bambole sono vestite da monache,
chiusa in un convento a sei anni, la fanciulla continua a sognare una vita
mondana di sfarzo e di divertimento. In un momento di debolezza firma il
documento che precede di un anno l’esame di un ecclesiastico per accertare la
vocazione. Si pente, ma il padre le fa pesare il ripensamento con la sua
disapprovazione.
Nel mese che la fanciulla deve trascorrere a casa con i
parenti prima dell’esame per la vocazione, i familiari sono con lei così
freddi, da farle apparire desiderabile la vita monastica piuttosto che la
permanenza nella casa paterna. Solo un paggio le dimostra simpatia e Gertrude
ricambia la sua tenerezza. I due sono sorpresi da una cameriera e la ragazza è
chiusa per punizione nella sua stanza sotto la sorveglianza di una donna della
servitù e sotto la minaccia di un oscuro castigo. Dopo cinque giorni di
prigionia, la giovane decide di scrivere al padre una lettera, in cui si
proclama pentita e pronta a fare la sua volontà.
Il padre di Gertrude coglie al volo il momento propizio per
attuare il suo piano di vedere accolta in convento la figlia una volta per
tutte. I familiari si stringono lieti intorno alla ragazza, che ormai non ha
più occasione di tirarsi indietro. Tutti la festeggiano e il mattino seguente è
condotta a visitare il monastero di Monza, dove ripete alla badessa le parole
che le sono state insegnate dal padre. Finché, fra un complimento e l’altro, il
suo ingresso al monastero si riduce a pura formalità. Il principe padre di
Gertrude e la badessa eludono la procedura prescritta dalla Chiesa e circondano
la povera ragazza di ipocrite attenzioni. Alla fine, viene scelta la madrina
che diventerà custode della giovane monacanda.
Nel giorno fatale, Gertrude, anche davanti al prete che la
esamina, non ha il coraggio di smentire tutto ciò che per settimane ha
sostenuto come vero. Il padre, che fino ad allora è stato sulle spine, ne è
sollevato. Le feste ed i divertimenti che seguono angosciano la povera ragazza,
consapevole di dover presto lasciare tutto quel fasto per sempre. Lei stessa,
dunque, chiede di entrare al più presto in convento. Qui, dopo dodici mesi di
noviziato, pieni “di pentimenti e di ripentimenti”, fa la professione, giurando
voti solenni.
Nel convento, ormai sua nuova casa, Gertrude non cerca
consolazione nella religione, come potrebbe fare per trovare finalmente un po’
di pace, ma invidia le compagne che potranno vivere all’esterno e detesta le
monache che hanno contribuito a farle prendere i voti. Gode comunque di alcuni
privilegi, come quello di abitare in un quartiere a parte, che si rivela essere
contiguo alla casa di un giovane corrotto, Egidio. Manzoni accenna appena alla
colpevole relazione tra i due. Si sofferma invece sui rimorsi della ragazza,
che arriva a farsi complice dell’omicidio di una conversa che ha minacciato di
fare rivelazioni compromettenti. Il rimorso per quell’omicidio è nella sua
mente da quasi un anno quando le viene presentata Lucia. La “signora” accoglie
la ragazza sotto la sua protezione perché le pare in questo modo di sminuire la
sua colpa, ma le domande che rivolge alla giovane sono così ardite, e così
insolite per una religiosa, da lasciare Lucia piena di stupore.
Il personaggio è chiaramente ispirato alla figura storica di
Marianna de Leyva (1575-1650), figlia di Martino conte di Monza e costretta a
farsi monaca dal padre contro la sua volontà: entrata in convento tra le
umiliate col nome di suor Virginia Maria (1591), esercitò in seguito l’autorità
feudale come contessa di Monza e fu perciò chiamata la “Signora”, mentre negli
anni seguenti intrecciò una relazione con Gian Paolo Osio (Egidio nel romanzo).
Manzoni modifica in parte la vicenda storica e la adatta alle esigenze
narrative del romanzo, anche se rivela fin dall’inizio la storicità del
personaggio: la Gertrude dei Promessi sposi è detta figlia di un gentiluomo
milanese il cui casato non è dichiarato in modo esplicito, anche se la città
dove sorge il convento è Monza.
DOMANDE
Svolgi
gli esercizi di analisi del testo
1) Spiega per quali ragioni il principe, padre di Gertrude,
decide di destinarla a diventare suora.
2) Quali sono i comportamenti dei familiari volti a
condizionare la decisione di Gertrude di entrare in convento?
3) Come viene accolta la richiesta del principe di far
entrare Gertrude in convento da parte della badessa del monastero di Monza?
4) In che modo reagiscono le compagne di Gertrude di fronte
alle sue vanterie?
5) Quale effetto produce questa reazione nell’animo della
fanciulla?
6) Perché Gertrude teme di rifiutarsi di entrare in convento
definitivamente?
7) Quale tipo di religiosità è stata inculcata nella ragazza?
8) Con quali argomenti il principe, infine, piega la sua
volontà?
9) Quale ruolo gioca Gertrude nelle vicende che vedono come
protagonista Lucia?
10) Manzoni fa riferimento al personaggio storico reale di
Marianna de Leyva (Suor Virginia) ed alla sua relazione con Paolo Osio. Riassumine
brevemente la storia.
RISPOSTE
1) Il principe padre di Gertrude, decide di destinare lei come tutti gli altri fratelli al chiostro per poter garantire tutta la sostanza del patrimonio al primo genito, il quale dovrà portare avanti il nome della famiglia.
2) Da parte dei familiari di Gertrude veniva effettuato un condizionamento indiretto delle idee della bambina fin dalla tenera età. Indiretto poiché non gli viene mai detto esplicitamente di farsi monaca, bensì fanno in modo che sia lei stessa ad approcciarsi e a vedere il mondo del chiostro come unica realtà. Questo condizionamento avveniva sia verbalmente che con l’utilizzo di mezzi fisici, andando dai continui riferimenti al suo futuro da madre badessa fino ai primi balocchi rappresentanti monache.
3) Sia la badessa che le normali monache del monastero di Monza accettarono con grande entusiasmo e riconoscenza, seppur mantenendo un profilo basso, l’opportunità di una così grande protezione, molto utile in qualsiasi occorrenza, quale era la possibilità di avere la figlia del probabile feudatario della città nel proprio convento.
4) Le compagnie di Geltrude reagiscono ai suoi atteggiamenti di superiorità mirati esclusivamente alla creazione di invidia esponendo le loro aspettative di vita particolarmente diverse a quelle della nostra protagonista, quali erano immagini varie di nozze, di pranzi, di festini e di carrozze.
5) Alla giovane fanciulla l’ascolto di tali desideri provenienti dalle coetanee fece scattare quel “movimento”, come soprannominato da Manzoni, che la fece fiondare immediatamente e con molto più fervore su atteggiamenti più simili ad essa. Andando a sviluppare e manifestare l’idea fino ad allora tralasciata del necessario consenso per diventare monaca.
6) Geltrude teme di rifiutarsi definitivamente di entrare nel convento poiché nella sua mente iniziarono ad espandersi e a maturare due grandi idee. La prima riguardava quegli atteggiamenti e quei desideri riscoperti, nella quale si rispecchiava al meglio, mentre la seconda era il pensiero fisso nella figura del principe, andando a porre la negazione al consenso come un rifiuto allo stesso padre, il quale esprimeva una certa sicurezza nella decisione della figlia.
7) La religiosità inculcata nella fanciulla sin dalla giovane età basa il suo fondamento sull’orgoglio, santificandolo e ponendolo come mezzo per la felicità eterna.
8) Il principe piega la volontà della figlia facendo leva sui quei sentimenti, che come dice anche Manzoni, entrati in quella fascia d’età vengono pervasi da una potenza misteriosa che ne rinvigorisce tutte le inclinazioni. Pone una lettera mandata da un membro della servitù a Geltrude come un ignobile peccato, facendo leva sulla stima e sulla paura che la fanciulla aveva nei confronti del padre, il quale come misericordia indica l’allontanamento da quel mondo che era pieno di pericoli per lei, portando la ragazza inevitabilmente al consenso.
9) Facciamo il primo incontro con Geltrude quando Lucia e Agnese, giunte a Monza raggiungono il convento dei cappuccini, dove mostrando la lettera di presentazione al padre guardiano fa la sua apparizione la “Signora” così denominata da Manzoni. La fanciulla diventata monaca che si occuperà della loro sicurezza. Accetterà un incarico del genere per via dei vari rimorsi che ella portava, difatti arriva a farsi complice dell’omicidio di una conversa la quale minacciò di fare rivelazioni compromettenti. Il rimorso per tale crimine sovrastava nella mente già da un anno da quando le viene presentata Lucia e accoglie la ragazza sotto la sua protezione perché immagina così facendo di espiare alle proprie colpe.
10) Manzoni fa riferimento al personaggio storico reale di Marianna de Leyva (Suor Virginia) ed alla sua relazione con Paolo Osio per creare il personaggio della monaca di Monza. Questa era la figlia di Martino conte di Monza e fu costretta a farsi monaca dal padre contro la sua volontà: una volta entrata in convento col nome di suor Virginia Maria (1591), esercitò in seguito l’autorità feudale come contessa di Monza e fu perciò chiamata la “Signora”, mentre negli anni seguenti intrecciò una relazione con Gian Paolo Osio.
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